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La vendetta del cavallo

Nel numero di dicembre 2024 di Scientific American è apparso un articolo che spiega come il cavallo sia stato uno dei principali artefici del progresso umano, a cominciare da parecchie migliaia di anni fa. Il bassorilievo egiziano della foto di qua sopra risale all’Età del Bronzo (1500 a.C.), ma la pratica, proveniente dalle steppe dell’Asia orientale, risale forse a mille anni prima. Si direbbe che l’intero sviluppo dell’umanità si sia compiuto in groppa a un cavallo, o su un carro trainato da cavalli: lo dimostrano i reperti fossili che portano i segni del “morso” e dei finimenti. Non occorre aggiungere altro al riguardo, basta pensare alla immensa quantità di raffigurazioni di condottieri a cavallo, eserciti, contadini e quant’altro. Velocità, potenza, resistenza, ma anche docilità e ubbidienza sono le doti di questi meravigliosi animali che ancora all’inizio del secolo scorso erano diffusi dappertutto, tanto da identificarsi con la stessa figura umana, quasi come prolungamento. Oggi sono relegati a ruoli marginali, a causa della diffusione della motorizzazione.

Ci sono popolazioni dell’Etiopia nel quale era il cavallo a connotare la stessa persona, come scrive Augusto Franzoj, viaggiatore dell’Ottocento, nel sul libro Continente Nero: “È ora di notare che Abbà vuol dire padre e che qui ognuno porta il nome del proprio cavallo, prendendone senza cerimonie anche la paternità. Io sono Abbà-Bullò (padre del rosso), perché il più bello dei due cavalli che montano i miei servi ha quel colore. Le donne hanno la maternità nominativa del cavallo del loro marito; così: Ada-Bullò (madre del rosso), Ada-Gurracio (madre del nero), ecc., ecc. I poverissimi, che non hanno cavallo, si chiamano padre dell’asino, padre del morto, ecc., ecc., oppure conservano il nome dell’ultimo antenato che ne aveva uno”.

E poi ci sono i cavalli delle praterie americane, quelli cavalcati dai cow-boy e dagli indiani nella tradizione western. Ed è lì che si chiude un cerchio, aperto molte migliaia di anni fa dai nostri – e dai loro – progenitori. Infatti è proprio dalle praterie del Nord America che il cavallo, o meglio il suo antenato, si è diffuso nel mondo. Ecco la storia.

Non partiamo da troppo lontano: ci bastano dieci milioni di anni fa. Il cavallo è già molto simile al nostro e vive selvaggio nelle pianure del Nebraska, del Kansas e del Texas (di allora). L’uomo ancora non è arrivato a disturbarlo. La popolazione equina aumenta, il clima cambia e subentrano le migrazioni, tipiche degli erbivori. Così capita che, seguendo la bassa vegetazione di cui si nutrono, alcune colonie si spostano sempre più a nord. Tanto da arrivare a oltrepassare quello che allora era l’istmo di Bering (oggi Stretto) che collegava l’Alaska con la Siberia. Ed ecco i cavalli diffondersi nelle steppe della Mongolia e via via in tutto il continente eurasiatico, e poi giù in Africa. Per gli uomini di allora erano prede come altre: venivano cacciati e mangiati. Lo stesso capitava con le colonie rimaste in America, ridotte di numero a causa delle glaciazioni: finirono sterminate – e divorate – dalle prime popolazioni locali. Si estinsero. In America non si trovano resti fossili di equini posteriori a diecimila anni fa. In America non c’erano più cavalli, e non ce ne furono più durante tutta la storia precolombiana. Ma preparavano la vendetta.

Intanto, in Asia e poi in Europa, l’uomo imparò ben altro che mangiarseli, i cavalli. Li trasformò in mezzi da trasporto, da lavoro, da guerra, da compagnia. In altre parole, li domesticò. L’uomo col cavallo a fianco, o in groppa ad esso, diventava un superuomo. Il cavallo non ha mai accettato completamente lo stato di animale domestico, come il cane o la gallina, tant’è vero che ogni cavallo nasce selvaggio e va “domato”, ossia assoggettato al potere del padrone umano. Ora lo si fa con grande dolcezza, e spesso si parte avvantaggiati dato che il giovane puledro possiede già una consuetudine con il compagno umano. Ma non dimentica le praterie di provenienza, dove correva libero in armonia con la natura. In quelle praterie il cavallo è tornato, non più come preda, ma come conquistatore, nel 1500 al seguito dei suoi nuovi alleati Spagnoli.

Tornano attraversando l’Atlantico sui velieri dei conquistadores. Questi non sono molti, ma portano con sé le micidiali armi da fuoco, le armature e appunto i cavalli, che li rendono spaventosi e invincibili, divini agli occhi dei nativi. Riecco, dopo tante migliaia di anni, il cavallo nelle praterie americane, complice dello sterminio dei popoli residenti, pronto a riconquistare i propri territori, a partecipare alla costruzione della più grande potenza del mondo. Cavallo vendicativo, che come il Conte di Montecristo nell’esilio non ha mai dimenticato i vecchi nemici, ma sempre con la sua bellezza, la sua velocità, la sua docilità e potenza. A proposito: a differenza degli Europei gli Americani di oggi non mangiano la carne di cavallo. Hanno imparato la lezione.

Trovate questa storia, in una animazione di pochi secondi, in questo sito del Nebraska

(zer037, dicembre 2024)

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