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Dire quasi la stessa cosa

Ecco un’altra recensione veramente tardiva. Chi si occupa anche occasionalmente di traduzioni, non dovrebbe tralasciare di leggere, o almeno cercare di leggere, il saggio di Umberto Eco sull’argomento: Dire quasi la stessa cosa, Rizzoli 2003, pagg. 400. Ancora di più oggi, che le traduzioni di intere opere letterarie sono spesso affidate a sistemi automatici basati sulla cosiddetta Intelligenza Artificiale. Il grande Eco approfitta ancora una volta per fare sfoggio di una spaventosa erudizione, cosa per cui viene spesso considerato un insopportabile snob. Detto tra noi, lo è proprio, ma a un simile genio si deve perdonare tutto, così come si fa con i pochi altri che meritano l’appellativo, sia nell’arte, sia nella scienza, nell’architettura o altro.

Tornando alle traduzioni, e limitandoci alla letteratura, esiste un assioma che serve a definire una buona traduzione tra due lingue: sarà buona quando, dopo avere tradotto un brano dalla lingua “A” alla lingua “B”, effettuando il percorso opposto (ossia da “B” ad “A”) si riottiene il brano originale. Facile per brevi periodi dal significato univoco, tipo “ho comprato un’automobile”; impossibile se solo si sfiora qualche modo di dire idiomatico come “ridere a crepapelle”, equivalente all’inglese “laugh out loud”, che però si ritraduce in “ridere ad alta voce”. In certi casi si perde proprio il senso, per esempio con “When he had passed the three score and ten he changed his views on industry”, frase presa da uno scritto di Henry Ford dedicato al naturalista John Burroughs. Traducendo letteralmente si ottiene la frase senza senso “Quando ebbe superato i tre punti e dieci, cambiò il suo punto di vista sull’industria”. Un buon traduttore sa che l’espressione “three score and ten” si usava per dire “settant’anni”, ossia tre “score” (venti) più dieci. Ok, quindi “quando ebbe superato i settant’anni cambiò il suo punto di vista sull’industria”. Provate ora a tornare alla frase originale inglese, con quell’effetto arcaico forse voluto. Dunque per bene che vada la traduzione, per quanto accurata, appiattisce, e l’assioma di cui sopra non si realizza quasi mai.

È a questo punto che si vede quanto vale un buon traduttore. Leggetevi, se ne avete voglia, questo bellissimo articolo apparso su “Il Post” nel 2011, che fortunatamente si può trovare ancora: La donna che tradusse il giovane Holden, Adriana Motti. Non fu facile tradurre lo slang di un adolescente americano degli anni ’50 senza scivolare in uno stile da neorealismo italiano che non avrebbe reso minimamente il ritmo originale. Fu così che la traduttrice si sentì autorizzata a inventare di sana pianta termini inesistenti come “vita schifa”, “una cosa da lasciarti secco” e così via. Per non parlare di tutti gli “and all” originali che diventano via via “e tutto quanto”, “e compagnia bella”, “eccetera eccetera”, “e quel che segue”, “e via discorrendo”, dato che l’italiano non ammette le ripetizioni, perfettamente accettate in inglese. Non sappiamo se Salinger abbia mai visto e approvato questa traduzione, ma siamo certi che il libro ebbe un grande successo in Italia e ancora “suona bene”, sobrio e moderno come è giusto per un romanzo di formazione.

Uno che invece ha sempre preteso di “dettare la traduzione” ai suoi traduttori è proprio Umberto Eco. Nel saggio di cui stiamo parlando confessa di aver sempre affidato i suoi romanzi, per le traduzioni nelle varie lingue – Il nome della Rosa è stato pubblicato in oltre 40 lingue diverse – solo a persone fidate, corredandoli di un “libretto di istruzioni” con le avvertenze su tutti i passi che necessitavano di particolare attenzione e che potevano sfuggire a una persona di cultura media. Per esempio, nell’Isola del Giorno prima i titoli dei capitoli, da un certo punto in poi sono titoli di libri del Settecento. Un gioco erudito che lui stesso ammette di aver fatto per puro divertimento, ben consapevole che la maggior parte dei lettori non avrebbero mai colto le sottili citazioni di libri sconosciuti ai più. Tuttavia incoraggiò i traduttori a cercare di ottenere lo stesso effetto, magari spolverando la letteratura nella propria lingua in cerca di qualcosa di simile: in questo modo la traduzione smette di essere fedele alla lettera ma diventa fedele all’intenzione dell’autore. Come vedete in molti casi le cose si complicano non poco.

All’inizio, parlando di questo saggio, abbiamo incoraggiato a leggerlo, o almeno a “cercare di leggerlo”. Infatti non è proprio una lettura leggera, e in molte pagine, da vero snob, l’autore usa termini comprensibili ai soli addetti ai lavori o propone brani in varie lingue senza peritarsi di tradurli, ma questo è coerente con lo spirito del libro, dato che se li traducesse direbbe, al massimo, “quasi la stessa cosa”.

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