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Globalizzazione e dazi

Quelle che seguono sono considerazioni a ruota libera, che esulano dal flusso mainstream di questo blog (se ne avesse uno). Infatti parliamo di economia. Immaginate, però, la conversazione tra cinque persone di media intelligenza e cultura, radunate intorno alla macchinetta del caffè in una pausa dal lavoro. Il discorso parte, come doveroso a inizio mandato di Trump, dalla faccenda dei dazi. Ben presto però si allarga, anzi dilaga fino a coinvolgere anche la famigerata intelligenza artificiale. Ma andiamo con ordine.

Un dazio, o tariffa, è una sorta di tassa a cui sono soggette le merci che viaggiano da una giurisdizione fiscale a un’altra. Un tempo le giurisdizioni fiscali riguardavano i Comuni, per cui si pagava dazio per “importare”, che so, formaggi dalla campagna alla città, se si cambiava territorio comunale. Non parliamo di tantissimi anni fa: in Italia dopo la guerra esistevano ancora le sbarre e i presidi daziali lungo le strade intercomunali. Lo scopo dichiarato era “proteggere” i produttori locali, da cui la parola “protezionismo” che si usa ancora. In realtà era un modo per sovvenzionare le amministrazioni locali. Poi quelli furono aboliti, e restarono i “diritti doganali” che sono la stessa cosa ma riguardano le frontiere tra Stati.

Piccolo aneddoto: negli anni del dopoguerra gli Usa non vedevano di buon occhio l’esplosione industriale e tecnologica giapponese, per cui decisero di mettere delle tariffe pesanti nell’importazione di beni di consumo come le radioline a transistor. Ma i dazi non riguardavano l’importazione di giocattoli, per cui i produttori giapponesi riuscivano a esportare verso gli Usa delle ottime radio facendole passare per giocattoli: le famose boy’s radios che oggi sono oggetto di culto e di collezionismo (se ne parla anche qui).

Parlando di dazi, negli anni ’60 fu poi l’Italia a imporre delle congrue tariffe per l’importazione di automobili, specie dalla Francia e dalla Germania, la cui produzione di utilitarie minacciava il predominio della Fiat. Sulle strade italiane circolavano quasi solo le “1100”, le “600” e le “500”, sebbene certe Renault, la Due cavalli e il famoso Maggiolino fossero migliori e più economiche in origine. Per non parlare delle auto giapponesi di cui non si conosceva neppure l’esistenza dato che in gran parte dell’Europa erano completamente bandite. Si prenderanno la rivincita in seguito, cominciando dalle motociclette.

Dunque verrebbe da pensare che un’economia nazionale abbia bisogno delle tariffe doganali. Prendiamo per esempio la produzione di mobili: un Paese ricco di foreste e legname, come la Svezia, offre un certo vantaggio ai mobilifici locali, che possono disporre di materia prima a prezzi vantaggiosi. Un Paese che invece il legname deve importarlo parte svantaggiato. È giusto dunque imporre un dazio, per salvare i piccoli produttori locali rispetto alla grande industria straniera dei mobili da montare con le brugole? La risposta, secondo i cinque amici che conversano, è molto complessa. Per esempio, le tariffe e le barriere doganali favoriscono i nazionalismi e la chiusura culturale e sociale: meglio abolire tutto e lasciare che a decidere sia il “libero mercato”. Dunque: globalizzazione, e di conseguenza, evviva Ikea, Opel e Peugeot.

Siamo ormai negli anni ’90, con l’Europa che naviga a vele spiegate verso il sogno dell’Unione: via le frontiere, via le dogane, lasciamo circolare liberamente persone e merci, offerte e richieste di lavoro, automobili e formaggi, e anche pomodori e fragole. Bello, no? È la globalizzazione, bellezza, se vuoi salvarti devi imparare a nuotare nell’oceano continentale. Ci si può riuscire, ma solo se si accettano le regole. Prima regola: niente protezioni. Seconda regola: “piccolo” non è più “bello”, come si diceva un tempo. Se vuoi resistere devi consorziarti e ingrandirti. Nascono i Gruppi finanziari e industriali; la Fiat ingloba tutte le bellissime aziende automobilistiche che arricchivano il patrimonio italiano; Lancia, Innocenti, Alfa Romeo, Autobianchi… non solo, ma deve consorziarsi con aziende straniere, ossia entrare in gruppi multinazionali. È solo ingrandendosi a dismisura che si riesce a tener botta alla concorrenza. E quello del cosiddetto automotive è solo un esempio del cambio di passo dovuto alla globalizzazione. Poi c’è la grande distribuzione per i prodotti da supermercato, l’industria farmaceutica, quella degli affitti delle case di vacanze, della vendita di libri e così via.

Chi ci guadagna? Chi ci perde? Facile rispondere. La globalizzazione aiuta i potenti, non i piccoli. D’altra parte aiuta chi fa buoni prezzi, magari a scapito della qualità. Vi siete chiesti come mai nei supermercati troviamo pomodori belli rossi che provengono dall’Olanda o dal Belgio? Non sanno di molto, ma non costano tanto e, se li metti in frigo, sono praticamente eterni. Se in un mercatino rionale compri pomodori di produzione locale, magari sono un po’ più saporiti, ma deperiscono in fretta e poi sono di qualità variabile. Meglio quelli “standard” dell’industria.

In tutto questo sconvolgimento di mercati e abitudini, arriva Internet a rappresentare il paradigma della globalizzazione: ogni punto del mondo è equivalente a qualunque altro punto, purché raggiungibile con un indirizzo IP. Non occorre più volare per riuscire a controllare i propri affari sparsi tra i continenti: tutto si può fare da “remoto”, ossia da casa propria o dalla località di vacanze. Siamo ormai all’inizio del nuovo millennio. Telefono cellulare e web costituiscono la rete perfetta per il consolidamento della globalizzazione di tutto: della finanza, della cultura, della tecnologia. Sembra che in mezzo a questa festa, a questo entusiasmo, ci sia nuovamente posto per i “piccoli”: grazie ai motori di ricerca e alla “democrazia” della rete ogni attività può essere resa visibile a tutti i potenziali interessati. Basta aprire il proprio “sito”, curarlo, aggiornarlo con contenuti interessanti e stimolanti, e al resto pensano gli spider (ossia i ricercatori automatici di informazioni) di Yahoo, Altavista e soprattutto Google, giovane motore di ricerca emergente e pieno di ambizioni, nato in una università americana. Sono gli anni dei blog e delle pagine degli hobby di nicchia. Ciascuna delle persone che stanno conversando intorno alla macchinetta del caffè ha avuto esperienze positive tra il 1995 e il 2015. Poi però è cambiato tutto. Il meccanismo è diventato più complicato: qualcuno si è impadronito del giocattolo e ha cominciato a giocare a escludere gli altri.

Intanto, proprio in quegli anni erano nati i primi social network, a cominciare da Facebook: luoghi virtuali di aggregazione, di conversazione e condivisione di esperienze. Gratuiti, come veniva dichiarato al visitatore titubante (non costa nulla e non costerà mai nulla). Bello, globale, stimolante. Come Google, che nel frattempo era cresciuto, si era mangiato gli altri motori di ricerca e aveva cominciato a diventare un tantino invadente.

Cos’era capitato? Niente di speciale: si stava cominciando ad applicare la seconda regola della globalizzazione: se vuoi [r]esistere devi ingrandirti (e per ingrandirti devi fare profitti). Ed ecco arrivare gli algoritmi. I più temibili sono quelli che servono a profilare gli utenti: cosa cerchi? cosa ascolti? che amici frequenti? quali posti frequenti? cosa leggi? cosa acquisti? dove? qual è il tuo stato di salute? quali sono le tue abitudini alimentari? (dobbiamo proseguire? meglio di no!). Insomma tutto. Una volta che l’algoritmo sa tutto di te, può venderti agli inserzionisti pubblicitari, ricavando dei bei profitti. E questa, era ancora la parte “buona” della storia.

Poi è arrivata l’Intelligenza Artificiale, e ormai siamo ai primi anni ’20 del XXI Secolo, ossia oggi. Tutti i grandi operatori del web che si sono arricchiti vendendoti a pezzi hanno mezzi, strutture e energia per gestire centrali di accumulo e elaborazione statistica di dati. Ci vogliono decine, centinaia di miliardi di dollari per gestire quelle centrali, da cui scaturiscono degli esseri apparentemente amichevoli e innocui: i chatbot, ossia Chat-Robot, software specializzati nella conversazione con gli umani. Meglio del motore di ricerca, legnoso e difficile da gestire. Il nostro amico chatbot, messo in cima a qualunque cosa vogliamo fare, è pronto a decifrare le nostre domante e a fornirci le sue risposte. Vi siete accorti? Se formulate una ricerca su Google, il primo a rispondere è AI Overview, che ti fornisce una risposta spesso esauriente, espressa correttamente nella tua lingua. A quanto pare, il 20, 30% degli utenti si considerano soddisfatti e non vanno oltre. Bello, no? Certo, ma non per i gestori delle pagine web.

Mettiamola così. Fino a pochi mesi fa, una ricerca forniva una serie di risultati sotto forma di link. Stava a te scegliere quali link seguire e quali pagine aprire. Il che significava traffico per alcuni siti, visibilità di banner pubblicitari e – quel che più conta – la possibilità dell’utente di trovare casualmente stimoli per ulteriori approfondimenti o per nuove esperienze. Come dice uno di noi: give chance a chance, ossia dai una possibilità al caso. Di questo bisognerebbe parlare estesamente, magari in un’altra occasione.

Tornando al/la nostro/a chatbot, il lavoro l’ha già fatto AI, leggendo preventivamente tutti i contenuti di tutti i siti di tutto il mondo, e seguendo tutti i link fino all’ultima foto o documento pdf, che ha coscienziosamente letto, decifrato e indicizzato, per poi memorizzarlo nell’enorme banca dati per la quale il gestore mantiene in funzione una centrale nucleare da 1800 MW. Chatbot non deve fare altro che pescare i dati, combinarli in una frase di senso compiuto, e offrirteli in poche righe esaustive. Bello no? Il tutto scavalcando bellamente tutte le regole del diritto d’autore, del rispetto delle opere dell’ingegno e anche delle opere d’arte, dato che gli stessi sistemi possono comporre poesie, scrivere romanzi e articoli scientifici, oltre a dipingere quadri, creare personaggi e quant’altro. Sì, ma dove poggiano? Poggiano sui miliardi di piccoli contributi nati e cresciuti negli ultimi trent’anni, costati tempo, fatica e intelligenza creativa di appassionati, che ora vengono semplicemente “schermati”, resi invisibili, schiacciati sotto il potere del mercato dell’informazione.

Provate a creare oggi un blog, a riempirlo di contenuti interessanti, a tenerlo aggiornato come avreste fatto vent’anni fa. Provate a creare un portale per la vostra casa editrice, per il vostro hobby di nicchia, che sia ricamo al tombolo o ricette di cucina. Provate a seguirne le statistiche di visite, contatti eccetera. Provate anche a promuovere tutto ciò attraverso i social, anche spendendo qualche soldino. Cosa vi aspettate? Vent’anni fa avreste visto il vostro indirizzo salire pian piano nel “rank”, ossia nella graduatoria dei risultati dei motori di ricerca. Molti di noi hanno provato e ricordano questa esperienza. Oggi? Niente, assolutamente. E si capisce perché. I primi a controllare sono gli algoritmi, e sanno dove piazzarti in base a ben altro che la qualità dei tuoi contenuti. Intanto, come puoi controllare tu personalmente, se formuli una domanda che dovrebbe portarti dritto ai tuoi contenuti, a parte l’AI di cui abbiamo parlato appaiono subito i contenuti sponsorizzati, quelli che pagano dei bei soldini per stare in cima, e poi di seguito altri che non possono nuocere, e così via senza più alcuna logica riconoscibile. Dunque, non esisti.

Questo è il risultato della globalizzazione, che richiede che esista soltanto Amazon per gestire tutta la produzione e la distribuzione di libri di tutto il mondo, e ne approfitta, dato che ha i furgoni, per gestire il commercio di qualunque bene vendibile, facendo la guerra accanita contro altri eventuali gestori, fino al negozietto sotto casa mia che viene usato solo per andare a misurare le scarpe prima di ordinarle a un prezzo conveniente (che male c’è).

E allora, uno di noi (anzi una) ha osato chiosare: ma allora Trump non la sta sbagliando troppo con la sua idea dei dazi: un colpetto alla globalizzazione potrebbe non essere poi tanto nocivo, se serve a rimettere in gioco il piccolo produttore, il piccolo editore, il calzolaio sotto casa, la biblioteca di quartiere. E magari anche una fabbrichetta di automobili che produce mezzi di trasporto adatti alle strade nazionali e a circolare a bassa velocità nei vicoli dei quartieri antichi, come la vecchia “500” faceva benissimo. Possibilmente senza fare troppo rumore e senza inquinare, però.

Abbiamo sorriso all’idea di questa “500 revisited”, e d’altronde la pausa caffè era terminata: era meglio terminare con un sorriso, come facciamo sempre dopo aver sviscerato alcuni problemi del mondo.

Zer037, maggio 2025

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